A volte la vita ci costringe a fermarci, anche quando non vorremmo. Ci sono momenti in cui il dolore arriva come un’onda improvvisa, travolgendo ogni cosa: i pensieri, le abitudini, la voglia di fare. E allora non resta che stare lì, dentro quell’onda, lasciandosi attraversare, senza fingere che vada tutto bene.
Ad agosto il mio cane mi ha salutata ed è andato a vivere "al piano di sopra".
Chi mi conosce, sa bene che per me non era “solo” un cane ma una presenza costante da oltre 13 anni, una piccola anima che mi accompagnava in silenzio nella vita di tutti i giorni, nei momenti più divertenti ma anche, e sopratutto, in quelli più difficili dove, anche solo con la sua presenza, rendeva le giornate più leggere.
La sua assenza ha lasciato un vuoto che non si colma, almeno non subito.
Per un po’ ho provato a continuare come se nulla fosse, ma presto ho capito che non potevo far finta di niente: per fare bene il mio lavoro, per essere presente con le persone che seguo e per scrivere con sincerità, dovevo prima fermarmi.
Ci sono momenti in cui non serve “fare”, ma semplicemente restare.
Così ho scelto di farlo. Di sospendere. Di non forzare la mia mente a produrre parole quando dentro c’era solo silenzio.
Fermarmi è stato necessario, anche se all’inizio mi è sembrato di perdere tempo, di deludere le aspettative, di arretrare. In realtà, stavo solo imparando a respirare di nuovo.
Fermarsi non è un fallimento. È un atto di cura.
Significa riconoscere i propri limiti, accettare che non possiamo essere sempre “in funzione”, che anche la mente e il cuore hanno bisogno di tempo per ricomporsi. Non si riparte davvero se prima non si è avuto il coraggio di fermarsi.
Nei giorni e nelle settimane successive, ho cercato di dare un senso a quel silenzio. All’inizio mi sembrava impossibile: ogni cosa mi riportava a lui, e la convinzione che nessuno potesse davvero capire il mio dolore mi isolava ancora di più. Poi, lentamente, ho cominciato a fare piccoli passi. Ho lasciato che il dolore avesse uno spazio, che mi parlasse, che mi mostrasse quanto fosse forte il legame che avevamo costruito. Ho pianto, tanto, e poi ho iniziato a camminare per poi riprendere a correre, letteralmente e simbolicamente. Uscire, respirare, tornare a godere della luce del giorno anche quando non ne avevo voglia.
Guarire non è dimenticare, ma trasformare ciò che resta.
Ho ricominciato a dedicarmi alle cose che amo, un poco alla volta: leggere, scrivere, correre, nuotare, parlare con chi mi voleva bene anche quando mi sembrava inutile. È stato così che ho capito che il dolore, se non lo si rifiuta, comincia piano piano a trasformarsi: da peso insostenibile a presenza silenziosa, da vuoto assoluto a ricordo a cui pensare con un sorriso. E mentre mi rimettevo in piedi, la vita, seppur diversa, continuava a muoversi.
Non posso dire di stare bene, non ancora. Il dolore, a volte, torna all’improvviso, come una fitta profonda. Però qualcosa dentro di me si è rimesso in movimento. Forse perché, in fondo, la vita stessa è un continuo alternarsi di soste e ripartenze e sento che è arrivato il momento di tornare a scrivere, a riflettere, a condividere.
Ripartire dopo un periodo di buio non significa dimenticare, ma trasformare. Portare con sé ciò che è stato, accettando che alcune ferite non si chiuderanno del tutto, ma potranno diventare spazio da dedicare a chi non c'è più.
Oggi scrivo e dico ad alta voce che ritorno con la consapevolezza che a volte la cosa più coraggiosa che possiamo fare è semplicemente fermarci per poter ricominciare.
Se in un momento della propria vita, ci si trova a doversi fermare, non lo si deve vivere come una sconfitta.
Bisogna prendersi il tempo di respirare, di accogliere, di ascoltarsii. Perché a volte la rinascita inizia proprio lì, nel silenzio che precede il primo passo.